Risonanze empatiche

La Dott. Rebecca Saxe è riuscita in ciò che nessun altro forse aveva mai pensato di tentare: rendere un’immagine tecnica, derivata da un’apparecchiatura medica, una fotografia della relazione affettiva che lega due persone, nello specifico una mamma e il suo bambino.
In effetti per farlo si è dovuta infilare in una risonanza magnetica con il figlio Percy di 2 mesi, ma direi che se questo è il risultato, ne è valsa la pena!

La ricercatrice del MIT, che studia la cognizione sociale umana, combinando misure comportamentali ai risultati delle tecniche di neuroimmagine, ha mostrato come la condivisione di un gesto di conforto fa attivare le stesse aree nel cervello di chi mette in atto il gesto e di chi lo riceve, contribuendo alle evidenze di una  base fisiologica dell’empatia.
Essere empatici significa riconoscere il sentimento di un’altra persona e sentirlo proprio, e questa immagine mostra proprio come questo sentimento si traduca in un pattern di attivazione cerebrale parallelo tra le due persone coinvolte, nel processo che si definisce rispecchiamento emotivo.

Negli ultimi anni la ricerca scientifica ha prodotto notevoli risultati nell’individuare un correlato dell’empatia a livello del funzionamento cerebrale.
Tra questi, lo studio1 capeggiato dal Robert Eres, dell’Università di Monash in Australia, che prende le mosse dalla distinzione tra empatia cognitiva e affettiva, riuscendo a dimostrare come queste si riflettono in profonde differenze a livello di morfologia cerebrale. Considerando l’empatia affettiva come la capacità di rispondere adeguatamente allo stato emotivo dell’altro e l’empatia cognitiva come l’abilità di comprendere concettualmente ciò che l’altro sta pensando o sentendo, Eres ha studiato il cervello di 176 partecipanti, riscontrando che le persone dotate di empatia affettiva hanno una materia grigia più densa nel lobo dell’insula, e che dunque il loro cervello è diverso, per struttura e morfologia, da quello di coloro che sono più inclini all’empatia cognitiva.

Nel campo degli studi sull’empatia è stata indagata anche la distinzione tra empatia e cura empatica, ossia quel sentimento di coinvolgimento e sollecitudine nei confronti di chi soffre che va al di là del “sentire” lo stato d’animo dell’altro, e spinge ad agire per alleviare il disagio.
A questo proposito alcuni ricercatori dell’Dipartimento di psicologia e neuroscienze dell’Università del Colorado2 hanno sottoposto 200 soggetti a una risonanza magnetica mentre venivano lette loro storie vere scelte per suscitare empatia. I risultati hanno messo in evidenza che empatia e cura empatica si traducono in percorsi di attivazione cerebrale diversi, tanto da poter prevedere, in uno studio parallelo, l’atteggiamento empatico dei soggetti coinvolti in base all’osservazione delle immagini delle loro risonanze magnetiche.

I risultati di ricerca ci dimostrano dunque che se l’empatia è un sentimento complesso, che l’essere umano sviluppa e modula anche alla luce di sollecitazioni educative e ambientali, ha un riflesso sul funzionamento e sulla struttura del nostro cervello. Essere più o meno empatici, essere più razionali o emotivamente coinvolti sono aspetti che cambiano il funzionamento del nostro cervello.

Non c’è da stupirsi allora se, ritornando alla connessione tra una mamma e il proprio bambino mostrata da Rebecca Saxe, esistono studi che dimostrano come il cervello della mamma è programmato a rispondere al pianto del bambino3, che si modifica in gravidanza e resta alterato per almeno due anni dalla nascita del piccolo4 e, in parallelo, che il cervello del neonato sia predisposto a riconoscere la voce della propria mamma5.
Il cervello si prepara a far fronte all’imminente cambiamento, predispone la mamma a accudire il proprio bambino, e il bambino a riconoscere la propria mamma. I due cervelli sono programmati per essere interconnessi, si modificano per fare in modo che questa connessione funzioni, in modo che la mamma possa automaticamente sintonizzarsi sui bisogni del proprio bambino.

1Eres, R., Decety, J., Louis, W.R., & Molenberghs, P. (2015). Individual differences in local gray matter density are associated with differences in affective and cognitive empathy. NeuroImage, 117, 305-310.
2Ashar,Y.K., Andrews-Hanna, J.R., Dimidjian,S., & Wager, T.D. (2017). Empathic care and distress: Predictive brain markers and dissociable brain systems. Neuron, 94(6), 1263-1273.
3Bornstein, M.H., Putnick, D.L., Rigo, P., Esposito, G., Swain, J.E., Suwalsky, J.T.D., Su, X., Du, X., Zhang, K., Cote, L.R., De Pisapia, N., & Venuti P. (2017). Neurobiology of culturally common maternal responses to infant cry. PNAS, 7, 114.
4Hoekzema, E., Barba-Müller, E., Pozzobon, C., Picado, M., Lucco, F., García-García, D., Soliva, J.C., Tobeña, A., Desco, M., Crone, E.A., Ballesteros, A., Carmona, S., & Vilarroya, O. (2017). Pregnancy leads to long-lasting changes in human brain structure. Nature Neuroscience, 20, 287-296.
5Abrams, D.A., Chen, T., Odriozola, P., Cheng, K.M., Baker, A.E., Padmanabhan, A., Ryali, S., Kochalka, J.,  Feinstein, C., & Menon, V. (2016). Neural circuits underlying mother’s voice perception predict social communication abilities in children. PNAS.

Sara Zaccaria

Sara Zaccaria

Psicologa e psicoterapeuta, ha coniugato la passione per i libri e quella per la psicologia occupandosi dello sviluppo editoriale per Hogrefe Editore e svolgendo attività libero professionale con bambini e adulti.

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