Fabio Celi

Intervista a Fabio Celi

Prof. Celi, lei ha dedicato molta parte della sua attività professionale e dei suoi scritti all’infanzia e all’adolescenza. Qual è il motore che l’ha spinto a scegliere questa difficile area professionale?

Come spesso succede nelle cose della vita, molto è stato determinato dal caso. Il mio maestro, il Prof. Caracciolo, si occupava di tecniche comportamentali che spesso venivano applicate, a quell’epoca, sugli handicappati e i bambini. Quando ho cominciato a lavorare nel servizio sanitario nazionale, i miei colleghi preferivano lavorare con gli adulti e io ero l’ultimo arrivato…
In seguito, le cose sono cambiate. Lavorare nel campo dell’età evolutiva è stato per me molto stimolante e mi ha arricchito bambino dopo bambino, seduta dopo seduta, anno dopo anno. Mi sono specializzato in una scuola di psicoterapia dove persino la parola “cognitivismo” era praticamente sconosciuta e il cognitivismo, come l’importanza del lavoro sulle emozioni, più che sui libri, l’ho imparato dai miei piccoli pazienti.

La qualifica di psicoterapeuta abilita all’intervento sulla persona ponendo l’accento sull’approccio epistemologico e poche volte sulla tipologia del cliente/paziente: la scelta di occuparsi di minori da parte di uno psicoterapeuta dovrebbe essere legata secondo lei ad una “super-specializzazione” oppure è una questione di “inclinazione individuale” indipendentemente dall’approccio formativo?

Penso che l’inclinazione individuale sia sempre importante. Se si toglie il tempo dedicato al sonno e ad altri bisogni primari, passiamo la maggior parte del nostro tempo lavorando. Un lavoro per il quale proviamo inclinazione svolge un ruolo importante per la qualità della nostra vita e credo che la motivazione, in uno psicoterapeuta, sia molto importante per conservare la così detta autenticità della relazione.
Poi, naturalmente, anche le competenze specifiche sono importati, anche se non sono così sicuro che in sede di formazione quella che lei chiama “super specializzazione” rappresenti la scelta migliore. Le vere specializzazioni si fanno sul campo, mentre le conoscenze generali riguardo ai processi psicologici, agli strumenti psicoterapeutici e alle modalità relazionali sono, in sede di formazione, più importanti. Per quello che vale la mia esperienza personale, io mi sono laureato in filosofia, poi mi sono specializzato in molte cose, ma certe conoscenze di base sul metodo cartesiano o sui dialoghi socratici hanno ancora un grande significato, per me, quando lavoro.  

Qual è, secondo lei, il ruolo della supervisione per coloro che si sono avvicinati a questa area psicoterapica?

Per me supervisione significa incontro con uno psicoterapeuta più esperto e più anziano al quale poter parlare del caso, delle difficoltà che il caso comporta, delle emozioni che lavorare con quel pazientino produce. Ovviamente, data la mia formazione, non arriverei a sostenere che lo psicoterapeuta più giovane debba mettere in discussione ed “analizzare la sua vita”, come probabilmente si fa in altri approcci, ma non credo nemmeno che il ruolo del supervisore sia quello di dare consigli partici e basta. Come accade nel rapporto psicoterapeutico, se il supervisore parla molto e il supervisionato ascolta in silenzio c’è qualcosa che non va, o per lo meno qualcosa che potrebbe essere fatta meglio.

Il lavoro dello psicoterapeuta in età evolutiva è stato associato al lavoro di un artista all’interno del quale tecnica e creatività devono coesistere (D. Berto). È d’accordo su questa visione?

Forse scandalizzando i grandi teorici dell’approccio cognitivo comportamentale, io penso che la psicoterapia non sia una scienza. Penso che la psicoterapia stia alla scienza come la Battaglia di San Romano di Paolo Uccello o lo Sposalizio della vergine di Raffaello stanno alla prospettiva. La prospettiva è una scienza. Il pittore se ne serve per fare il suo quadro, ma il suo quadro è un pezzo unico, irripetibile e quindi non scientifico per definizione.
Io mi servo degli studi di Skinner sul condizionamento operante per cercare di aumentare la frequenza di un comportamento positivo in un bambino o di quelli di Ellis sui pensieri irrazionali per favorire in un ragazzo lo sviluppo di un modo più adattivo di vedere le cose, ma poi quello che faccio con quel bambino o con quell’adolescente non è il lavoro di uno scienziato, ma quello di un artigiano.

Nel suo libro “La psicoterapia in età evolutiva”, lei affronta molteplici situazioni tecniche ma offre anche altrettante soluzioni pratiche: è stato un lavoro di “difficile semplificazione” oppure un esempio di come possa essere “pratico e praticato” l’incontro con un minore e la sua famiglia?

Per usare e riformulare le sue parole, è stato un lavoro di “facilissima semplificazione”. Questa risposta è molto legata a quella precedente sulla mia idea di psicoterapia come artigianato. Per me è difficile teorizzare. È difficile spiegare le tecniche come se fossero apodittici strumenti cristallizzati una volta per tutte come una formula matematica. Raccontare il “pratico e il praticato” mi viene naturale, forse perché è questo che ho fatto per tutta la mia vita lavorativa.

Daniele Berto

Psicologo e psicoterapeuta è attualmente Dirigente-Psicologo presso la Asl di Padova, dove si occupa di stress lavoro correlato. Unisce all'attività istituzionale, l'attività didattica e forense.

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